L’appello di un gruppo di medici e scienziati. “Non possiamo fare a meno del servizio sanitario pubblico”

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In Italia una delle più grandi conquiste della Repubblica è il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), che ha contribuito significativamente a migliorare prospettiva e qualità di vita e a ridurre le disuguaglianze socioeconomiche.
Appello per la sanità pubblica (credit: scienzainrete.it)

Pubblichiamo l’appello con cui un gruppo di medici e scienziati, tra cui il premio Nobel Giorgio Parisi, vuole ribadire l’insostituibilità del Servizio sanitario nazionale e rilanciarne lo sviluppo in modo che possa soddisfare le esigenze dei cittadini.

In Italia una delle più grandi conquiste della Repubblica è il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), che ha contribuito significativamente a migliorare prospettiva e qualità di vita e a ridurre le disuguaglianze socioeconomiche.

Negli ultimi decenni, in un contesto di marcato miglioramento delle condizioni generali di salute della popolazione mondiale, l’Italia si caratterizza per il maggior incremento – tra i Paesi ad alto reddito – dell’aspettativa di vita, passata da 73,8 a 83,6 anni tra il 1978 (che è l’anno di creazione del SSN) e il 2019. Ma se segnali preoccupanti si percepivano già prima del 2019, dopo la pandemia molti dati dimostrano che il sistema presenta inequivocabili segni di crisi: frenata o arretramento di alcuni indicatori di salute, difficoltà crescente – e talora insostenibile – di accesso ai percorsi di diagnosi e cura, aumento delle diseguaglianze regionali e sociali, per citare solo i problemi più importanti.

Quali sono le cause principali? L’inarrestabile evoluzione tecnologica, con il conseguente incremento dei costi, l’invecchiamento della popolazione e il mutamento degli scenari delle malattie, congiuntamente all’inflazione e alle difficoltà della finanza pubblica, hanno reso fortemente sottofinanziato il SSN, al quale nel 2025 sarà destinato circa il 6,2% del PIL, meno di quanto (6,5%) accadeva 20 anni fa. Oltre al divario tra costi crescenti e finanziamento decrescente e a un carico di inefficienza e inappropriatezza, manca un vero dibattito sul nesso tra sostenibilità e diritto alla salute.

  1. Possiamo fare a meno del SSN?
    I Servizi Sanitari universalistici come quello italiano sono stati colpiti duramente dalla crisi economica del 2009, e in alcuni casi (Grecia, Spagna, Portogallo) hanno ridimensionato grandemente il ruolo del pubblico a favore del privato (con una conseguente crescita della spesa sanitaria direttamente a carico dei cittadini). Dal sistema pubblico viene ancora garantita a tutti una quota di attività (urgenza, ricoveri per acuzie), mentre per un’altra parte dell’assistenza (visite specialistiche, accertamenti diagnostici, piccola chirurgia) la popolazione è costretta a rinviare gli interventi o indotta a ricorrere al privato e alle assicurazioni. Progredire su questa china, oltre a essere contrario al dettato costituzionale (Art. 32), potrebbe portarci verso il modello USA, che è chiaramente il più oneroso (spesa media più che tripla rispetto all’Italia) e meno efficace (aspettativa di vita inferiore di sei anni). Noi crediamo che i cittadini non vogliano scegliere questo scenario.
  2. Stiamo finanziando adeguatamente il nostro SSN?
    In Canada, nel 2002, la Commissione incaricata di proporre miglioramenti al SSN nelle sue conclusioni scrisse molto chiaramente che il servizio sanitario è sostenibile se i cittadini lo vogliono. Il che significa che i cittadini ne riconoscono l’importanza, lo sostengono con le loro contribuzioni e lo utilizzano in maniera appropriata. Oggi il SSN è finanziato mediante la fiscalità generale, secondo il principio solidaristico, e la quota di incidenza rispetto al PIL sta scivolando verso il 6%, con un divario di un punto percentuale (corrispondente a circa 20 miliardi di €) rispetto alla media UE, e con differenze molto più marcate nei confronti dei grandi Paesi europei (Francia e Germania spendono oltre il 10% del PIL). La spesa sanitaria non è grado di assicurare compiutamente il rispetto del Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). Solo poco più della metà delle Regioni rispettano i LEA, mentre in molte Regioni del Sud l’effettivo esercizio dei diritti non è garantito. L’autonomia differenziata potrebbe approfondire la frattura tra Nord e Sud d’Italia in termini di diritto alla salute, ancora una volta contro i principi della Costituzione. È dunque necessario un piano straordinario di finanziamento del SSN e specifiche risorse devono essere destinate a rimuovere gli squilibri territoriali, come previsto dall’articolo 119 della Costituzione.
  3. Le strutture sanitarie sono moderne e adeguate?
    Parte delle nuove risorse dovrebbero essere impiegate per intervenire in profondità sull’edilizia sanitaria, in un Paese dove due ospedali su tre hanno più di 50 anni, e uno su tre è stato costruito prima del 1940, quando la medicina era letteralmente un’altra cosa. La grande maggioranza degli ospedali risulta gravemente obsoleta sia sotto il profilo della sicurezza (sismica, antincendio) sia per le esigenze cliniche e organizzative della medicina moderna. In molti ospedali operano professionisti eccellenti e vengono eseguite procedure di alta specializzazione, con il paradosso di effettuare interventi di assoluta avanguardia in un contesto ottocentesco. Il PNRR pone in parte rimedio alla obsolescenza delle tecnologie, ma per gli ospedali prevede solo alcuni interventi antisismici, ora a rischio. Inoltre, le risorse per l’edilizia sanitaria sono impiegate solo parzialmente dalle Regioni (oltre dieci miliardi sono ancora inutilizzati) e la capacità di spesa di molte Regioni risulta sempre più deteriorata.
  4. Gli operatori del SSN si sentono valorizzati, tutelati e motivati?
    Più di quello edile o tecnologico, il grande patrimonio del SSN è il suo personale: se per installare una sofisticata apparecchiatura sono necessari un paio d’anni dal momento della decisione, molti di più occorrono per disporre di professionisti sanitari competenti, per i quali il processo formativo e di aggiornamento continua lungo tutta la vita lavorativa. Ma nello scenario di obsolescenza strutturale, e di fronte a cittadini/pazienti sempre più insoddisfatti (e quindi spesso, purtroppo, aggressivi o rivendicativi) è inevitabile che gli operatori siano sottoposti a una forte pressione, e cresca l’insoddisfazione. Il risultato è una fuga dal pubblico e, nel perimetro del pubblico, dai luoghi di maggior tensione (si pensi, su tutte, all’area dell’urgenza-emergenza), che rischia di creare gravi carenze in particolare in alcune specialità. È fuor di discussione che sia necessario aumentare i compensi agli operatori ma non è solo un problema salariale: molti accetterebbero incrementi contenuti della propria retribuzione se si vedessero garantite condizioni di lavoro soddisfacenti con turni meno usuranti, sicurezza personale, una formazione gratuita e di qualità, maggiori possibilità di carriera professionale, la non perseguibilità penale per errori colposi. Particolarmente grave è inoltre la carenza degli infermieri (in numero ampiamente inferiore alla media europea). Disporre di infermieri e tecnici altamente qualificati potrebbe consentire quella redistribuzione razionale dei compiti tra differenti professionalità sanitarie (oltre a una più flessibile composizione delle equipe assistenziali), della quali è ormai ben dimostrata l’efficacia clinica e l’efficienza organizzativa.
  5. La continuità assistenziale sta funzionando?
    Da decenni si parla di continuità assistenziale (ospedale-territorio-domicilio e viceversa), ma i progressi in questa direzione sono stati limitati. Oggi il problema non è più procrastinabile. Tra 25 anni quasi due italiani su cinque avranno più di 65 anni, molti dei quali affetti da almeno una patologia cronica. Quello cui assistiamo è il paradosso della medicina moderna: il miglioramento nel contrasto a molte malattie comporta un esponenziale incremento dei costi; quello che una volta non si poteva curare ora si cura (talora con grande impiego di risorse) e spesso trasforma una morte certa e in tempi brevi in una patologia cronica che determina costi continuativi per un lungo periodo. Occorre disegnare un percorso, concertato tra tutti i protagonisti, uniforme sul territorio nazionale, di continuità tra ospedale e territorio: dagli Ospedali di comunità alle Case della comunità, dal mondo del Long Term Care alle nuove tecnologie (telemedicina). E che includa, come protagonisti non periferici, anche i Medici di medicina generale, il cui ruolo va rivalorizzato.
  6. L’organizzazione del SSN e la misurazione dei suoi risultati sono efficienti, efficaci e utilizzano le tecnologie disponibili?
    Non abbiamo dati affidabili sulla base dei quali costruire analisi, modelli, ipotesi e programmazione. L’eterogeneità delle 21 Regioni o Province autonome, e al loro interno la difformità dei sistemi informativi e della raccolta dei dati, fanno sì che oggi le informazioni raccolte contribuiscano solo marginalmente alla comprensione della realtà e alla pianificazione del SSN. Esemplificativo in questo senso è il dato relativo alle liste d’attesa, su cui sappiamo troppo poco per poterlo affrontare efficacemente. Un grande sforzo, soprattutto di indirizzo e riorganizzazione, deve essere fatto per raccogliere dati attendibili, elaborarli e analizzarli, per avere una fotografia dell’esistente più prossima alla realtà, che possa permettere interventi correttivi e di programmazione puntuali ed efficaci.
  7. Stiamo governando adeguatamente l’immissione delle nuove tecnologie?
    L’innovazione in medicina è una spinta formidabile al miglioramento della qualità delle cure, ma in un contesto dominato dalla carenza di pianificazione e da interessi commerciali talora accade che vengano introdotte tecnologie (e tra queste i farmaci) che non producono significativi miglioramenti sul piano clinico (beneficio per il paziente) ma che risultano invece molto onerose. Tecnologie e farmaci poco efficaci o impiegati in modo inappropriato sottraggono risorse ad ambiti dove quelle risorse potrebbero produrre benefici molto più tangibili e rilevanti. Da decenni è sollecitata da più parti la diffusione di metodologie di HTA (Health Technology Assessment – Valutazione delle tecnologie sanitarie), che verifichino, prima dell’introduzione di una tecnologia innovativa, la coerenza del rapporto costo/beneficio, sia a livello nazionale e regionale sia a livello di ASL e Ospedale. Al contempo è necessario investire molto di più in ricerca in tutti gli ambiti; si pensi per esempio alla cura delle malattie rare (pressoché ignorate dall’industria perché non redditizie) o alla questione delle differenze di genere (le donne ricevono farmaci studiati sui maschi ignorando che il metabolismo, l’efficacia e la tolleranza dei farmaci sono diversi nei due sessi).

Ma soprattutto occorre, per quanto sia impopolare, fare delle scelte politiche trasparenti e basate su prove scientifiche su quali prestazioni garantire e quali limitare entro il SSN. La nostra medicina offre troppo ad alcuni (perlopiù ricchi) e troppo poco ad altri (perlopiù poveri). Anche in questo perimetro si deve inserire il potenziamento del SSN nell’ambito della ricerca, sulla scorta di esperienze nazionali (come il GISSI) o internazionali, per produrre prove di efficacia laddove queste scarseggino o siano controverse. Esemplare l’esempio dello studio inglese RECOVERY sul trattamento del COVID-19, condotto nel NHS e decisivo per le scelte terapeutiche.

Inoltre, per i farmaci e i trattamenti innovativi servono nuovi modelli per fissare rimborsi che siano basati, oltre che su ragionevoli margini di profitto, sui reali costi di sviluppo, validazione e produzione.

  1. L’accesso alle cure è agevole e sufficientemente tempestivo?
    Si è già accennato al tema delle liste d’attesa, ma dovrebbe essere chiaro che la dilatazione – insostenibile – dei tempi di attesa per le prestazioni sanitarie è solo il sintomo del complesso di problemi che sta affliggendo il SSN. Le liste d’attesa producono effetti gravi sulla salute dei cittadini, traducendosi spesso nella rinuncia alle cure (un over-65 su quattro rinuncia nel corso dell’anno ad almeno una prestazione sanitaria) ; il fenomeno – e questo è uno degli aspetti più preoccupanti – è ancora più marcato tra i soggetti economicamente fragili, per i quali l’ipotesi di un esborso di denaro per accedere a una prestazione a pagamento non è tra le opzioni percorribili. L’intervento sulle liste d’attesa deve prevedere una strategia coordinata, che riduca drasticamente l’elevata quota di inappropriatezza: un cittadino che esegue una prestazione sanitaria inutile, oltre a rischiare di danneggiare la propria salute, certamente sottrae la disponibilità di quella prestazione a un paziente per il quale è necessaria. Attualmente il sistema nel suo complesso prescrive molto di più di quello che è in grado di erogare. Occorre quindi allineare prescritto e prodotto, utilizzando le tecnologie disponibili per effettuare prenotazioni automatiche all’interno del SSN, e lavorando sia sul lato domanda/prescrizioni (appropriatezza e standard assistenziali coerenti alle risorse disponibili), sia sul lato offerta.
  2. Le attuali politiche di prevenzione sono sufficienti?
    La spesa per la prevenzione in Italia è da sempre al di sotto di quanto programmato (5% della spesa pubblica), il che dà in parte conto degli insoddisfacenti tassi di adesione ai programmi di screening oncologico che si registrano in quasi tutta Italia. Ma ancora più evidente è il divario riguardante la prevenzione primaria; se è vero che nel corso degli ultimi decenni si è ridotta la percentuale di fumatori, su altri versanti stiamo assistendo a una preoccupante inversione degli indicatori. Per fare un esempio, nell’UE abbiamo gli adulti più “magri”, ma al contempo abbiamo una delle percentuali più alte di bambini sovrappeso o addirittura obesi, e tale dato correla sia con un cambiamento – preoccupante – delle abitudini alimentari sia con la scarsa propensione degli italiani all’attività fisica. La salute si tutela in tutte le politiche, da quelle industriali a quelle agricole, da quelle urbane a quelle relative alla mobilità (si pensi al modello delle “città dei 15 minuti”, i cui obiettivi convergenti sono la riduzione dell’inquinamento atmosferico da traffico veicolare e l’aumento dell’attività fisica da parte dei cittadini).
  3. I cittadini sono consapevoli della complessità del tema salute e hanno gli strumenti per essere protagonisti?
    I cittadini sono normalmente informati sugli scenari della salute e della sanità (quando non si trovano a farne esperienza diretta) dai media generalisti o dal web. Sono tuttavia spesso disorientati, tra visioni miracolistiche e – all’altro estremo – diffidenza o sospetto che possono trasformarsi in rifiuto della “medicina ufficiale” (con conseguenze talora serie per la loro salute). Rendere i cittadini protagonisti in ambito sanitario necessita di un grande investimento – di portata strategica, e prevalentemente culturale – per aumentare le loro conoscenze scientifiche e la consapevolezza di come tutelare la loro salute. Questo potrebbe consentire ai cittadini di comprendere come le politiche ambientali, urbane, industriali, del territorio, sono determinanti fondamentali nella tutela e nella promozione della loro salute, e uscire dalla diade fideismo-negazionismo. Per il punto precedente e per questo, il SSN può essere uno straordinario promotore di cultura e di iniziative intersettoriali, se tutti lo sosteniamo come patrimonio condiviso.

Tra qualche anno celebreremo il 50° compleanno del nostro SSN: mantenerlo efficiente e in buona salute è un dovere morale verso le prossime generazioni, per non disperdere un patrimonio unico che abbiamo avuto la fortuna di ereditare.

Firmato: Ottavio Davini, Enrico Alleva, Luca De Fiore, Paola Di Giulio, Nerina Dirindin, Silvio Garattini, Franco Locatelli, Francesco Longo, Lucio Luzzatto, Alberto Mantovani, Giorgio Parisi, Carlo Patrono, Francesco Perrone, Paolo Vineis.

Vedi
https://www.scienzainrete.it/articolo/non-possiamo-fare-meno-del-servizio-sanitario-pubblico/ottavio-davini-enrico-alleva-luca-de

Il commento

In barca con Caronte
di Umberto Pivatello

L’azione di erosione del sistema sanitario nazionale è iniziata con l’arrivo del berlusconismo e da allora non si è più fermata. Oggi tutte le regioni spingono per sostenere la sanità privata come toccasana dei conti pubblici. Lo schema è collaudato. Una copertura assicurativa che costa almeno 6 mila euro l’anno se sei in buona salute, se invece sei male in arnese la polizza aumenta di conseguenza. Nel privato la visita specialistica o un esame diagnostico lo esegui in pochi giorni. Se, invece, non vuoi pagare l’assicurazione spesso in esercizio con la tua banca perché non hai i soldi, o perché sei un partigiano della sanità pubblica, allora aspetti pazientemente il tuo turno nel pubblico per la sospirata visita medica: sei mesi se la fortuna ti assiste; oltre un anno nel peggiore dei casi.
Nel frattempo c’è il rischio di un peggioramento delle tue condizioni di salute? Sì. Anche di trovarti in barca con Caronte? Sì. La tanto sbandierata autonomia regionale porterà in dote i sospirati miglioramenti? No. E neanche in Veneto, dove l’autonomia viene costantemente oliata.

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